Enzo Tedeschi continua il percorso che lo ha portato a toccare le sponde di una nuova, personale Metafisica, presentandoci dei luoghi che, parafrasando De Chirico “danno l’impressione che altri segni, oltre a quelli già palesi, debbano subentrare nel quadrato della tela. Tale è il simbolo della profondità abitata.” Le sue immagini mostrano paesaggi senza tempo, privi di stabili coordinate geografiche: luoghi della mente in cui le piccole, isolate figure umane si stagliano su fondi desolati, in attesa di qualcosa che forse non accadrà mai. Alcune, sovrastate da simboli incombenti, sono in silenziosa contemplazione, altre si affaccendano in attività senza scopo apparente, come i personaggi che il Piccolo Principe incontra durante il suo viaggio: il Geografo, l’Uomo del lampione, il Vanitoso, tutti incapaci di guardarsi intorno, di provare empatia, di comunicare, rassegnati e schiacciati da un fato di antica ascendenza. Le lettere dell’alfabeto che si ergono come monoliti tra dune di sabbia o modulano una nuova Torre di Babele, si caricano così di una potente forza evocativa; attraverso esse l’autore riflette sul potere dei linguaggi, solleva interrogativi sui metodi della comunicazione e, ancora più in fondo, sul concetto di esistenza. Sappiamo come la fotografia sia in grado di conferire a ciò che viene ripreso la certificazione di autenticità: quel “è stato” così sensibilmente espresso da Roland Barthes, che fa sì che ciò che si vede nella foto sembri tanto sicuro quanto quello che si tocca. In questo territorio liminale realtà e verità si compenetrano: le costruzioni della mente prendono forma, il bidimensionale acquista corpo, gli edifici, decontestualizzati e fuori scala, perdono la loro funzione originaria, l’uomo è sagoma silente nel deserto. In un’epoca di colonizzazione digitale, le fotografie di Enzo Tedeschi divengono una precisa dichiarazione di intenti: le accurate messe in scena, piccoli plastici che richiedono lunghi interventi di preparazione e assemblaggio, sono riprese con strumenti analogici. La stampa in camera oscura accentua le atmosfere evocative e conferisce all’autore lo status di homo faber: colui che unisce la téchne al logos e al mythos, capace cioè di progettare, eseguire e realizzare, riconoscendo se stesso nel prodotto ottenuto.